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Praga: Miti e Leggende di una capitale magica |
Sulla capitale della Repubblica Ceca c’è un alone di intrigante mistero. Prima che su fondamenta di pietra e di terra, la città sembra poggiarsi sul mito e sulla leggenda.
Secondo Andrè Breton è la «capitale della magia», secondo Angelo Maria Ripellino è «un antico in-folio dai fogli di pietra, città-libro, in cui resta ancora tanto da leggere, da studiare, da capire».
Accanto ai ritrovamenti archeologici che ne delineano origini e urbanizzazione, troviamo un mito di fondazione che la fa risalire all’opera di una veggente, Libuše, ancora oggi effigiata in uno dei palazzi affacciati su Piazza della Città Vecchia (Staré Mĕsto) mentre a Vyšehrad c’è un gruppo scultoreo che la ritrae con il mitico consorte Přemysl, fondatore della dinastia reale dei Přemyslidi. Ma Libuše è un pò ovunque, occhieggia silenziosa ed eterna come la sua fama.
Secondo la trecentesca leggenda di Dalimil, proprio su questo colle a picco sulla Moldava, in una posizione spettacolare e carica di romanticismo, la principessa Libuše scelse in sposo il contadino Přemysl. A capo di una tribù di origini slave, i due un giorno stavano passeggiando quando la donna ebbe una visione estatica: tutto all’intorno sembrò fermarsi, perfino il canto degli uccelli e le fronde degli alberi.
Libuše profetizzò allora quanto segue «Urbem conspicio fama quae siderea tanget...:
«Vedo una città
che sarà illustre nel mondo
e la cui gloria raggiunge le stelle.
Questo luogo è celato nelle profondità dei boschi,
a nord lo protegge la valle del Brusnice,
a sud una grande montagna rocciosa.
La Moldava si apre la strada sotto le sue pendici.
Costruite questa città, ve l’ordino,
là dove io vi indicherò.
Sulla Moldava, sotto Petřín,
un falegname fabbrichi con il figlio una soglia;
e per questa soglia chiamate la città Praga.
I popoli, seppur forti come leoni,
curveranno la testa davanti a questa soglia
per averla salva.
Così la mia città
avrà lode e gloria» (Nota 1)
«Demon es domuit» (il demone è
domato), epigrafe scolpita su una
delle statue del Ponte Carlo, che ritrae
un demone dolente.
Quando i messi reali andarono nel punto indicato dalla loro regina, videro che un contadino e suo figlio stavano tagliando un albero con un sega perché intendevano farne una soglia, che in ceco si dice prah, per questo la futura città che lì sorse prese il nome di Praha (Praga in italiano).
Libuše era un’eccellente maga, una sapiente, che vedeva nel futuro ma anche nelle profondità della terra, così era capace di indicare vene l’oro e l’argento che si trovavano nelle vene metallifere dei monti della ubertosa Regione, considerata da tutto il popolo una benedizione del Cielo.
Quest’aura di città prodigiosa, Praga non l’avrebbe persa mai più. Merito o colpa (dipende dai punti di vista!) anche dei personaggi che l’hanno animata nel corso dei secoli, artisti, scienziati, astronomi, musicisti, poeti, maghi, alchimisti, sapienti ma anche «apprendisti stregoni»...
Ci sono così tante leggende che ammantano la città, da non sapere da dove cominciare; la cosa migliore è visitare questa capitale con animo curioso e senza troppa fretta, così si avrà modo di scoprire tanti luoghi che susciteranno fascino e mistero.
Praga non è troppo grande per non essere percorsa tutta a piedi; solo così la magia è garantita. È stata chiamata anche «città dalle cento torri», «città d’oro», «Roma del Nord», «città sacra» per via dei suoi 25 conventi e delle sue 100 chiese...
Un tempo era costituita da 4 città indipendenti, che sono state unite dall’imperatore Giuseppe II. Queste città sono ancora ben distinte e prendono i seguenti nomi:
- Stare Mĕsto (Città Vecchia o città reale, 1232)
- Malà Strana (piccola parte, città piccola, oggi in stile prevalentemente barocco, dove hanno sede il governo e diverse ambasciate)
- Hradčany (città del castello, 1320)
- Nové Mĕsto (città Nuova, esistente già nel medioevo, 1348, fu rifatta alla metà dei sec. XIX e XX).
Praga è attraversata dal fiume Moldava, ha 16 ponti stradali; l’isola fluviale più nota e visibile da tutti i turisti è quella di Kampa. Per secoli vi fu un solo ponte, il più celebre ed elegante, Karlův Most o Ponte Carlo (voluto nel 1357 dal sovrano più amato, l’imperatore Carlo IV), il secondo fu realizzato solo nel 1848.
Prima, esisteva un più arcaico ponte del XII secolo ma venne distrutto da una piena nel 1342. Ponte Carlo è lungo 516 m, ha un andamento un pò curvo ed è fiancheggiato a destra e a sinistra da gruppi scultorei numerati in ordine progressivo.
Sono statue assai interessanti, cariche di misticismo, di un’aria strana, surreale, quasi siano plasmate dal cielo stesso in cui si stagliano.
Una leggenda vorrebbe che di notte, quando il fascinoso ponte è vuoto da ogni turista che lo affolla durante il giorno, le statue si muovano per prendersi cura dei bambini dell’isola di Kampa. Alcuni sostengono infatti che di notte le statue appaiano diverse da come si vedono di giorno, ma siamo in una città magica e tutto può accadere.
Sul ponte grava poi un’altra leggenda, legata a San Giovanni Nepomuceno (XIII sec.), protettore dei ponti: nel punto in cui c’è una croce con 5 stelle, il santo sarebbe stato gettato nel fiume per non aver rivelato al re Venceslao ciò che la regina sua moglie gli avrebbe detto in confessione.
Si cercò invano il suo corpo, fino a che si videro sulla superficie dell’acqua cinque punti luminosi simili a cinque stelle; andando a verificare, si scoprì che lì sotto c’era il corpo del santo che, da allora, viene sempre raffigurato con un’aureola dorata incastonata da cinque stelle.
Toccare con la mano sinistra la croce e insieme le stelle esprimendo un desiderio, lo stesso si avvererà; toccare invece la statua del santo, che fu anche la prima che venne installata qui e certamente la più simbolica per i praghesi, si ritiene che porti fortuna e si tornerà a Praga.
E per chi ama il fantastico, guardate bene nelle acque della Moldava sotto il Ponte Carlo, potreste vedere i Vodník, i folletti che vi abitano; si narra che siano creature dal corpo verde, solitamente buone ma se si arrabbiano diventano molto permalose!
Tra i loro compiti c’è anche quello di salvare e conservare le anime di coloro che annegano nel fiume...
Percorrendo le vie del centro storico, oltre a meraviglie note alle guide e rintracciabili su vari opuscoli, si badi a fare attenzione ai particolari, come ai numerosi simboli massonici di cui gli edifici sono pieni, dalla Libreria Municipale a via Parigi (Nota 2) ...; moltissime le strane facce che ammiccano dai portoni, dai balconi, dalle facciate dei palazzi, simboli esoterici come Hermes e il suo mirabolante Caduceo, angeli e demoni in un susseguirsi senza sosta.
Alchimie a corte
Se vi trovate al n. 40 di Karlovo námĕsti fate attenzione: è chiamata la «casa di Faust» (Faustův dům), personaggio ricollegato alla goethiana opera, quel Fausto che strinse una sciagurata alleanza con il demonio ma in realtà l’edificio non avrebbe nulla da spartire con il diavolo.
La settecentesca dimora appartenne all’alchimista inglese Edward Kelley, che era stato, oltre un secolo prima, al servizio dell’imperatore Rodolfo II (1552- 1612); nell’Ottocento il romanticismo stimolò una connessione con il medico e astrologo tedesco Georg Faust e ancor più con i Faustbücher tardo-cinquecenteschi. Ma già all’epoca, quando in quella casa prese alloggio Kelley, si intensificarono le leggende, rappresentando il sapiente boemo - esperto in magia nera - sorvolante l’Europa, a cavalcioni in groppa a Mefistofele trasformato in cavallo volante. (Nota 3)
L’altra casa che Kelley acquistò non era certo meno... invidiabile, in quanto situata in uno dei luoghi satanici di Praga, Dobytčí trh, il Mercato del Bestiame, ma anche il quartiere delle forche... «I suoi sottosuoli ispirano il terrore, li si immagina pieni di prigioni segrete, di antri di congiurati e di supplizi, di sepolture e si sotterrati vivi»..., scrive la Dauxois.
Anche l’inquilino non godette di una vita lunga: dopo uno strabiliante successo alla presenza di Rodolfo II, nel suo laboratorio alchimistico, ottenne l’oro e grandissime concessioni, ma a soli 42 anni persa fama e favori perché incapace di portare avanti l’Opera, cadde in disgrazia e si fece avvelenare dalla moglie per evitare ulteriori sofferenze fisiche e morali.
Parlando di Rodolfo II d’Asburgo è impossibile non parlare di alchimia e cabalismo. Il sovrano, che trasferì la capitale dell’impero asburgico dalla detestata Vienna all’amatissima Praga nel 1583, fondò un’ «accademia alchimistica», chiamando a raccolta nomi eccellenti della sua epoca.
Più che a questioni di regno, il sovrano manifestò interesse per la ricerca dell’eternità che, secondo il suo modo di pensare, si sarebbe concretizzata attraverso due vie parallele, quella delle arti e quella delle scienze. Voleva un regno pacificato che gli permettesse di condurre le ricerche, l’unica cosa che per lui contasse davvero, per dare pace a se stesso e consolidare le sue convinzioni.
Sotto il suo regno, la città di Praga allargò la propria fama, secondo le profezie di Libuše, diventò una grande capitale ma anche il ritrovo delle stranezze, poiché si diceva che il sovrano «amasse le bizzarrie»; in realtà egli era assetato di conoscenza e non badò a spese per avere tra i suoi cortigiani i migliori scienziati, come Tycho Brahe e Giovanni Keplero, due astronomi che hanno lasciato fondamentali tracce nell’astronomia, ma accolse anche pittori come Arcimboldo, artigiani, poeti, musicisti, artisti, astrologi, alchimisti e si valeva del suo medico personale, Šimon Tadeáš Hájek (o Taddeus Hagecius) per smascherare gli imbroglioni che ambivano ad avere un posto di alchimista imperiale.
Ma dove si trovavano i laboratori di alchimia sotto il suo regno? Nel Castello sono due i punti più «incriminati»: il primo sarebbe - senza prove - il celebre Zlatá ulička o Vicolo d’Oro (o degli Alchimisti), alle spalle del monastero di san Giorgio, sotto le mura settentrionali del castello, dove si dice che vi fossero cantine deputate alle operazioni «filosofiche».
Si narra che di notte si vedessero fumi salire dai camini, che scomparivano al mattino. Il nome del vicolo, ufficialmente, deriverebbe da alcune botteghe di battiloro che vennero aperte nel XVII sec., e solo in seguito fatte passare per laboratori d’alchimia.
Oggi visitare il Vicolo d’Oro è un’impresa di per sé ardua: straripante di gente attratta dalla sua fama, si deve sgomitare per percorrerla e soprattutto per entrare nelle sue abitazioni.
La sua particolarità sta nelle case a misura di lillipuziano, piccolissime, che quasi si può toccarne il tetto; colorate e vicinissime le une alle altre.
Al n. 22 visse, per cinque mesi, lo scrittore Franz Kafka (tra il 1916-17). Molte sono state adibite a botteghe artigianali, alcune hanno mantenuto l’aspetto originario conservando, all’interno, alcuni attrezzi del mestiere che vi si svolgeva.
Dall’altra parte delle casette, si trovava la Fossa dei Cervi, area riservata alla caccia dell’imperatore, ma secondo molti, area di morte. In fondo al Vicolo d’Oro si stagliano infatti due Torri, una bianca e l’altra nera. Nell’una venivano rinchiusi i ciarlatani, tra cui Dalibor (che le ha conferito anche il nome omonimo), le cui note del violino sembrano a tratti risuonare tra gli strumenti di tortura. Sulla Fossa pendevano le gabbie dov’erano rinchiusi i condannati a morte.
L’altro luogo papabile per aver ospitato un laboratorio alchimistico è la Prašnà vĕ o Torre delle Polveri, situata alla sinistra della cattedrale. Questo è descritto anche nelle guide ufficiali che dicono che vi sono evidenti tracce di un crogiolo.
Effettivamente sul pavimento è ben visibile un grande spazio circolare, pavimentato a cotto, segnato centralmente con una croce. Il soffitto, cupoliforme, si presenta molto annerito, per le parti verosimilmente originali che sono rimaste (confronto al resto, che è rifatto). Si ritiene che qui vi fosse installata la bottega alchimistica legata all’imperatore; egli autorizzò pure la raccolta della diabolica Mandragora, sempre presente nelle storie di stregoneria fin dalle epoche più remote.
Rodolfo fu affascinato dalle fasi interminabili dell’Opera, comprendendo che la fretta non giova. Comprese bene i rituali che accompagnano la raccolta, l’essiccazione e la conservazione di determinate erbe magiche necessarie per l’alchimia; gli piaceva l’idea della loro relazione con le stelle.
Ogni 14º giorno della Luna Nuova, mandava i suoi alchimisti a raccogliere le grosse spighe gialle dell’Erba della luna o erba dei serpenti per essere messa in vasi di coccio ben tappati, nascosta sottoterra e da lì estratta dopo molti mesi, distillata in un alambicco di rame per ottenere il «Saturnino», indispensabile ingrediente dell’olio di sole o polvere di proiezione, necessaria alla trasmutazione.
Stando alle cronache, Rodolfo avrebbe appreso tutte le operazioni necessarie al conseguimento dell’Opus, sperimentando in prima persona l’alchimia, della quale conosceva o credeva di conoscere gli affascinanti segreti, rapito dal fatto che gli elementi costitutivi dell’Opera potessero cambiare natura.
Si narra che si facesse fare l’oroscopo quotidianamente e su ogni questione, tanto da non prendere più decisioni senza aver prima consultato l’oracolo.
Sul finire del XVI sec. chiamò a corte il rabbino Jehuda Lőw ben Bezalel, noto come Rabbi Lőw (1512-1609), che si era stabilito da tempo a Poznán, e lo nominò Rabbino Capo della città ebraica di Praga, carica che questi ricoprì fino alla morte; fu Rettore della Scuola Talmudica di Praga e autore di una serie di scritti religiosi e filosofici. Rodolfo II protesse gli ebrei perché oltre alla loro sapienza erano anche formidabili affaristi; il rabbino Mordecai Maisel (1528-1601) fu Ebreo di corte e finanziere del sovrano.
Fu proprio sotto il regno rodolfino che Rabbi Lőw, grande cabalista e sapiente paragonato al biblico Salomone, creò il Golem.
Le leggende ebraiche e il Golem di Rabbi Lőw
A doppio filo con l’origine mitica di Praga è la presenza ebraica, con il bagaglio di cultura esoterica che essa ha portato con sé.
Racconta infatti un’antica tradizione che dove oggi sorge Praga, vi era già insediata una comunità giudea dall’epoca del Secondo Tempio (riferito al secondo Tempio di Gerusalemme, che venne distrutto nel 70 d.C.); questo insediamento sarebbe stato distrutto e gli ebrei cacciati.
Nel 730 d.C. Libuše avrebbe però previsto il loro ritorno e, sul letto di morte, avrebbe raccomandato al proprio figlio Nezamysl che in futuro, quando la città sarebbe stata governata da suo nipote (il leggendario principe dei Cechi Hostivìt, morto intorno all’ 870 circa), il «piccolo popolo straniero, cacciato e oppresso, adorante un solo Dio» avrebbe dovuto essere accolto con ospitalità, dandogli protezione perché avrebbe apportato benedizione su quella terra.
La profezia si avverò e quando Hostivìt divenne regnante e gli si presentarono gli Ebrei a chiedergli asilo, ebbe in sogno la visita della nonna profetessa che gli rammentò il da farsi ed egli, consultato il popolo, li accolse benevolmente, affidandogli un’area sulla riva sinistra della Moldava (dove si trovava il vecchio insediamento di Újezd, attualmente corrispondente al Vicolo Karmelitská). A quel tempo, l’antica Boemia non era ancora cristiana, e gli Ebrei convivevano con le tradizioni «pagane».
Quando l’area che avevano ricevuto in dono divenne troppo piccola, chiesero un altro posto dove poter vivere e il duca Bořivoj concesse loro uno spazio sulla riva destra della Moldava, che oggi è noto come la città ebraica o Josefov (in omaggio all’imperatore Giuseppe II che nel 1784 visitò il ghetto e attenuò le discriminazioni razziali, che nei secoli - periodicamente - gli ebrei hanno subito).
Visitare questo quartiere è un’esperienza assolutamente impedibile, sia per la sua storia antica che per quella più recente (nel percorso museale si può accedere al Memoriale degli ebrei praghesi morti nell’Olocausto o al toccante Museo dei Bambini di Terein, oltre che al Museo Ebraico allestito nell’ex sinagoga Maisel, nella foto). Certamente il maggior fascino è esercitato dagli edifici più vecchi, che sono pochissimi ma di fondamentale importanza, non solo per Praga ma l’Europa intera. Uno di essi è la sinagoga Vecchia-Nuova (Staronová synagóga, un tempo chiamata Nuova o Grande) risalente al XIII sec.; la sua sala principale è l’unico esempio originale di sala medievale esistente al nord delle Alpi. È l’edificio più antico di tutto il quartiere ebraico, anche se rimaneggiato nel XVI sec.
La leggenda narra che nella sua soffitta, lassù dove nessuno da quattro secoli può accedere, giaccia - ben nascosto - il Golem ormai inerte, in attesa di qualcuno che lo faccia «rivivere». La leggenda del Golem è famosissima e oggetto di adattamenti letterari ottocenteschi (v Jacob Grimm, Achim von Arnim, E. Th. Hoffmann) e novecenteschi (G. Meyrinch), oltre che di produzioni cinematografiche (es. Wegener «Il Golem», del 1920).
Ma in realtà la nozione di Golem è radicata nella più antica tradizione cabalistica ebraica.
Fu il rabbino Jehuda Lőw ben Bezalel, noto come Rabbi Lőw, attorno al 1580, a creare il Golem., che significa «massa informe».
La sinagoga Vecchia-Nuova (in primo
piano), a destra, il curioso orologio - quello
più basso- sul municipio ebraico (1764): le
ore sono scritte in lettere e le lancette, come
la scrittura ebraica, vanno in senso
antiorario (da destra a sinistra). Nella soffitta
della Sinagoga, sarebbe nascosto da quattro
secoli il famoso Golem.
«Ata Bra Golem Dewuk Hachomer W’tigzar Zedim Chewel Torfe Jisrael»
(«Crea un Golem di argilla e annienta la malvagia canaglia divoratrice di Ebrei»).
La sapienza del rabbino gli permise di interpretare l’insieme delle parole tramite la corrispondenza numerica arcana delle lettere dell’alfabeto e utilizzandole per creare un corpo vivente dall’argilla.
Ci fu tutto un rituale segreto, condiviso tra lui stesso ed altre due persone fidate, poiché il Golem necessitava dei 4 Elementi per essere realizzato: Jizchak ben Simon era suo genero e il rabbi gli attribuì l’elemento Fuoco ; Jackob ben Chajim, discepolo di Jizchak, era l’Acqua , il rabbino stesso era l’Aria e poi c’era la Terra , dalla quale sarebbe nato il Golem.
Con una formula magica, disponendosi ai piedi del blocco di argilla scelto sulle rive della Moldava, eseguirono le operazioni che Rabbi Lőw indicava scrupolosamente, eseguendo dei giri in un senso preciso e recitando formule specifiche; a poco a poco il blocco prese forme umane, ma era inerte.
Al termine di tutto il cerimoniale magico (=cabala pratica), il rabbino mise nella bocca dell’essere uno Shem (che significa «nome», cioè il nome di Dio) scritto su una pergamena e tutti e tre contemporaneamente, piegandosi verso i quattro punti cardinali, pronunciarono le parole «E soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo diventò un essere vivente».
All’ordine del rabbino, il Golem si alzò, lo vestirono come un servitore del tempio e apparve come un uomo normale, soltanto gli mancava la parola. Lo chiamarono Josef.
Egli eseguiva ogni ordine di Rabbi Lőw che, dal canto suo, al popolo spiegò di aver trovato quello straniero muto per strada e di averlo assunto come servitore, vietando però a tutti di servirsene. Lui solo, infatti, era in grado di comandarlo.
Una variante della leggenda dice che il Golem portasse sulla fronte la parola Emeth = Verità (che in ebraico si scrive Aleph א, Mem מ, Thaw ת, con valore rispettivo delle lettere 1, 40, 400).
Il lettore si sarà accorto che la creazione del Golem assomiglia a quella del biblico Adamo, il cui nome si scrive Aleph א, Daleth ד, Mem מ (in questo caso le lettere valgono 1, 4 e 40).
In effetti, secondo la scienza esoterica, dietro la storiella leggendaria, si cela un significato ben più profondo, in cui il Golem «rappresenta lo stato umano prima che Dio insufflasse in lui lo Spirito. Ritrovare il senso del Golem significa ritrovare le chiavi della Sapienza [...] Adamo, che ha il nome della terra rossa, è un Golem fino al momento in cui Dio gli ha insufflato il Neschamah». (Nota 4)
È la Materia Prima dell’Alchimista, simboleggia la prima tappa di un processo trasmutativo. Si rintraccia dunque nel mito del Golem (che pare esistesse già entro i confini della mistica ebraica, prima di Rabbi Lőw, e continuò a proliferare nell’immaginario collettivo, che lo condì di diverse varianti) "il tema relativo alla Creazione di Adamo, ridimensionato al fine di renderlo armonicamente «possibile» all’interno dell’esperienza umana.[...] Un aspetto particolarmente interessante del mito golemico è l’uso della parola come strumento magico, determinante per animare l’essere creato [...] è un modus operandi tipico del creatore divino che, oltre ad avere un archetipo nel «soffio» giudaico-cristiano della Genesi, si rinviene in molte altre culture del passato". (Nota 5)
Nei Salmi (139,16) troviamo la forma più antica della parola Golem «I tuoi occhi videro il mio Golem, nel tuo libro erano scritti tutti i giorni a me destinati prima che ne esistesse uno»; ne derivò l’uso talmudico di indicare, con tale termine, l’informe e l’imperfezione, per via analogica il termine ricorda ciò che è ancora privo di sviluppo, che è in formazione, l’esistenza che precede l’essenza (infatti il sostantivo Golem viene anche tradotto come embrione).
Il Golem presenta alcune caratteristiche che lo rendono minaccioso; leggenda vuole che un giorno Rabbi Lőw si dimenticasse di impartigli gli ordini della giornata ed egli, non sapendo che fare, si mise a correre all’impazzata per il ghetto, distruggendo ogni cosa, fino a che il suo creatore lo fermò, sempre con la parola che è strumento magico.
Questo aspetto tenebroso (Zelem) ha un valore analogico con l’uomo medesimo, che si attarda nel conseguimento della perfezione e se non si ha l’illuminazione, il vivente non è tale ma solo un automa. Ciò che conta è stanare il Golem dentro di noi, e per farlo ci vuole la Conoscenza, dicono i cabalisti. Se ricordiamo il valore numerico delle lettere che compongono le parole Emeth e Adam c’è una differenza di «zeri» che si traduce in un cambiamento di piano, per i cabalisti, senza modificazione del senso ontologico del numero; significa progredire lungo l’asse centrale dell’Albero Sefirotico. L’Uomo deve possedere la Verità, specchiarsi in essa, affinché possa ascendere al livello cosmico per il quale è stato creato.
Il Golem è anche decifrato come chiave della moderna cultura, «sottomessa alle seduzioni tecnologiche e incatenata al sapere degli apprendisti stregoni[...]». L’automatismo delle azioni sfugge alla vera padronanza fondata su una conoscenza iniziatica dell’uomo che, troppo spesso, come nel personaggio ermetico di Pinocchio perde la propria umanità pneumatica (Neschamah) conferita dalla fata (il divino) per ritrovare la rigidità articolata in una marionetta preadamitica (prima creazione di Geppetto) (Mirabail, 1996).
Rabbi Lőw, trascorso molto tempo dalla creazione del suo Golem (Nota 6) , vedendo la città ebraica pacificata, decise che non ci fosse più bisogno di tenerlo in vita. Ordinò a Josef che non dormisse nella stanza del Rabbinato ma di portare il proprio letto nella soffitta della Sinagoga Vecchia-Nuova. Naturalmente il rituale si svolse a notte fonda, alla presenza delle stesse tre persone che avevano partecipato alla creazione del Golem. Inattivarlo non fu affatto difficile per Rabbi Lőw: bastava ripetere il cerimoniale al contrario di come era stato eseguito per la creazione.
Persone in raccoglimento ancora oggi
sul sepolcro di Rabbi Lőw, nel Vecchio
Cimitero ebraico di Praga.
Lassù, dunque, ancora oggi si troverebbe la «pietra», in attesa di essere rianimata... Chissà però che per qualche arcana magia il Golem ogni tanto si ridesti e guardi dalla finestra, di notte, verso lo Starý idovský hřbitov, il Vecchio Cimitero ebraico, in fondo alla strada (Nota 7) .
Qui riposano oltre 12.000 corpi, segnalati da altrettante lapidi che non sono state mai rimosse perché la legge ebraica lo vieta; si sono così sovrapposte le une alle altre strato su strato, reclinandosi una verso l’altra come in una formazione geologica.
Il luogo rappresenta uno dei più importanti monumenti conservati nella città ebraica di Praga. Qui è sepolto il creatore del Golem, insieme alla moglie, in un sepolcro fatto a tempio che è ancora molto visitato e venerato. Accanto vi sono sepolti 33 suoi discepoli. Lui, che aveva creato un marchingegno che lo avvertisse quando la morte si avvicinava per non lasciarsi mai sorprendere, quando ebbe quasi cento anni si distrasse un attimo per andare ad accogliere i suoi parenti, dimenticando lo strumento da lui stesso inventato in un’altra stanza. Così, annusò una rosa portagli dalla sua piccola nipote e morì all’istante. L’apparecchio strillò dall’altra camera ma nessuno lo sentì. La Morte era entrata in una goccia di rugiada depositata su un petalo della magnifica rosa.
Bibliografia utile (oltre a quella già citata nelle note):
- Collezione praghese di leggende ebraiche, nuova raccolta rivista (Vienna e Lipsia, 1926)
- Chajim, Bloch «Der Pragher Golem» (Il Golem di Praga), Berlino, 1920
- Parik, Arno «Praga ebraica», Museo Ebraico di Praga, III Edizione, 2005
- Le Grandi Città d’Europa, Praga, Touring Club Italiano, 2002
Marisa Uberti (Novembre 2011 - ©Foto dell’Autrice)
Ricercatrice indipendente, webmaster del sito www.duepassinelmistero.com, ha unito la sua formazione scientifica all'attrazione per il mistero e per il simbolismo. Instancabile viaggiatrice, ama documentare «sul campo» i soggetti dei suoi studi, conscia che ogni ricerca sia un tassello dell'immenso mosaico della conoscenza.
Ha all'attivo numerosi articoli sia in formato digitale che cartaceo. È membro del Gruppo Archeologico Ambrosiano; ha collaborato con la rivista «Hera» e con diverse testate culturali nel web. Con la casa editrice Eremon ha pubblicato, insieme a Giulio Coluzzi, il libro «I luoghi delle triplici cinte in Italia».
Ricercatrice indipendente, webmaster del sito www.duepassinelmistero.com, ha unito la sua formazione scientifica all'attrazione per il mistero e per il simbolismo. Instancabile viaggiatrice, ama documentare «sul campo» i soggetti dei suoi studi, conscia che ogni ricerca sia un tassello dell'immenso mosaico della conoscenza.
Ha all'attivo numerosi articoli sia in formato digitale che cartaceo. È membro del Gruppo Archeologico Ambrosiano; ha collaborato con la rivista «Hera» e con diverse testate culturali nel web. Con la casa editrice Eremon ha pubblicato, insieme a Giulio Coluzzi, il libro «I luoghi delle triplici cinte in Italia».
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