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"È lo stesso anche per Ochos, il re persiano così crudele e spaventoso, quello che uccise tanti uomini e che arrivò anche a trucidare Apis, e poi lo mangiò a banchetto insieme ai suoi amici: gli Egiziani gli diedero il nome di «spada»."
(Plutarco - «De Iside et Osiride»)
(Plutarco - «De Iside et Osiride»)
I figli di Tanit (III p.) |
Con questo terzo ed ultimo lavoro su Mozia cercheremo di completare quanto é stato finora detto sulle simbologie care ai Fenici. Presentemente abbiamo voluto essere fedeli ad uno dei detti più popolari tramandatici (probabilmente) dall'antica Saggezza:
Museo Egizio di Torino - Stele di epoca
Tolemaica. Vi è raffigurato il defunto accompagnato
da Anubi al cospetto di Osiride
Ora, se questo proverbio ha una valenza positiva nella vita quotidiana, non meno efficace si dimostra nella scienza di Hermes.
A tal proposito Theophrastus Bombastus Von Hohenheim , meglio noto come «Paracelso» (1493 -1541), rivolgendosi a coloro che precedendolo esclusero il Sale come terzo principio, ebbe a proferire:
«Credevano che il Mercurio e il Solfo fossero i principi di tutti i metalli e non si sono neppure sognati di menzionare il terzo.» (cfr: «Il Tesoro dei Tesori»)
«Sappiate quindi che tutti e sette i metalli nascono da una materia triplice, cioè dal Mercurio, dal Solfo e dal Sale, però diversi e con colori particolari.
Ermete, perciò, ha detto non male che tutti e sette i metalli nascono e sono composti da tre sostanze e analogamente le tinture e la Pietra dei Filosofi.» (cfr: «De Natura Rerum»)
Di primo acchito al lettore quasi certamente sarà sembrato che nelle argomentazioni iniziali siamo voluti andare «a ruota libera» ed inevitabilmente lontani dalle tematiche che ci proponiamo di sviluppare in questa sede; eppure in tutta franchezza assicuriamo che non è questo il nostro caso.
Ebbene, stando alle testimonianze degli antichi storici, tra i quali Erodoto (484 - 425 a.C.) e Diodoro Siculo (80-20 a.C.), i Fenici erano assai dediti al commercio per mare. Tra i preziosi beni che erano soliti mercanteggiare (tra i quali spezie, metalli, stoffe, ecc.) figurava anche il preziosissimo Sale di cui essi erano, oltre che abili dispensatori, anche i produttori.
Furono proprio i Fenici, infatti, i primi a notare che il territorio di Mozia e dintorni presentava (e presenta tutt'oggi) acque basse, calde e con un'elevata concentrazione salina, condizioni queste ideali per l'estrazione del cloruro di sodio.
Nessuno si sorprenderà dunque se affermiamo che molto probabilmente la fondazione delle vicine saline di Trapani risale appunto all'epoca dei nostri antenati inventori della porpora. (Nota 1)
Il sale veniva utilizzato, oltre che come indispensabile apporto alimentare, anche per la conservazione del cibo. E' qui da osservare che da secoli gli Egizi utilizzavano il cloruro di sodio (o, a voler essere precisi, il «Natron» - Nota 2 ) per la mummificazione dei morti.
Il corpo del defunto, grazie all'azione disidratante del sale, poteva meglio conservarsi nel tempo.
Andremo un po' più in là di queste argomentazioni di ordine prettamente funzionale svelando l'esoterismo celato nella pratica.
Secondo la concezione Egizia era proprio grazie all'apporto vivificante del sale che l'anima del defunto (così come il corpo) poteva conservarsi nel tempo, ma soprattutto (in una seconda istanza) rinascere a nuova vita.
La resurrezione del corpo e dello spirito era in qualche modo legata indissolubilmente al sale. Si vede bene che (secondo gli Egizi) il corpo di morte da molti disprezzato, che all'apparenza non ha nulla di seducente e che spesso presenta un odore nauseabondo, contiene in se qualcosa di estremamente prezioso.
A questo punto della nostra esposizione apparirà chiaro perché il sale veniva un tempo chiamato anche «oro bianco» e ciò non solo per sottolinearne la purezza (da sempre giustamente incarnata dal colore «bianco»), ma anche per associarlo ad Horo, ossia all'anima morta (Osiride) e poi risorta la quale, a buon diritto, poteva esclamare:
«Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell'Ade» (Apocalisse 1,18)
Nel prosieguo parleremo ancora del nostro terzo principio e della sua ineluttabile necessità.
La maschera dal sorriso sardonico
Or dunque ci avventuriamo ancora una volta sulle secrete vie del museo Whitaker, sito nella nostra amata isola, per occuparci di uno dei reperti più curiosi e senz'altro appariscenti preposti alla sagace attenzione del visitatore.
Trattasi di una maschera ritrovata nel tophet di Mozia e realizzata in terracotta rossa rappresentante un volto dai tratti sinistri e controversi che si risolvono in un sorriso che può definirsi «diabolico».
In particolare la bocca, che presenta una concavità verso l'alto, è deformata nel rappresentare una risata, mentre il disegno degli occhi è concavo verso il basso... quest'ultimi sembrano cioè versare salate lacrime.
Parrebbe dunque esserci nel nostro personaggio una netta opposizione tra sentimenti l'uno in contrasto con l'altro. Giubilo e tristezza, gaiezza e malinconia, godimento e pianto.
Altro particolare... il viso presenta delle rughe assai marcate.
In tutta evidenza l'uomo della maschera fa mostra di un'età affatto avanzata... trattasi assai verosimilmente di un «vegliardo».
Ora, alcuni studiosi si sono figurati i Fenici come un popolo dedito ai sacrifici umani (ed in particolare dei propri primogeniti maschi).
A testimonianza di ciò nel tophet di Mozia sono state ritrovate diverse urne cinerarie. I fanciulli, stando anche all'attestazione di Diodoro Siculo, venivano arsi vivi in onore del dio Baal Hammon; le ceneri dei corpi martoriati dal fuoco purificatore erano poi raccolte in appositi vasi.
Si ritiene dunque che questa maschera prendesse in eredità l'espressione di gioia/dolore del carnefice nell'atto dell'esecrabile infanticidio.
Questi bambini furono uccisi realmente, oppure i corpi ritrovati sono quelli di fanciulli morti per cause naturali?
Non staremo qui a discutere sul problema che al momento sembrerebbe non presentare una soluzione convincente e definitiva, ma preferiamo occuparci della questione da un punto di vista prettamente simbolico.
Riassumendo abbiamo dunque un vegliardo che uccide dei bambini innocenti... la situazione richiama alla mente un mito assai celebre, ossia quello del vecchio Saturno (o Crono) nel quale al «Dio del Tempo» venne profetizzato che uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato.
Decide allora di divorare tutti i lattanti insensibilmente, cioè tutti quei «figli di Tanith» che nascono dal cielo (luogo da cui proviene il soffio vitale), eccezion fatta per Giove che, appunto, gli succederà.
Rea infatti, moglie del «dio cronocratore», ad un certo punto decide di ingannare il marito dandogli da mangiare, al posto di Zeus infante, una roccia abilmente camuffata ed avvolta in fasce.
Il seguito del mito ci viene precisato dal distico del dodicesimo emblema dell' Atalanta Fugiens (1617) opera del medico alchimista Michele Maier:
«La pietra che, divorata da Saturno al posto del figlio Giove fu da lui vomitata, e posta sull'Elicona quale monumento ai mortali.»
Nel discorso relativo al nostro emblema il medico tedesco ci fornisce prontamente una spiegazione del mito di cui ci stiamo occupando:
«I Filosofi esperti dichiarano che Saturno è il primo a presentarsi nella loro Opera [...] il color nero è quindi Saturno, disvelatore di verità, che divora una pietra al posto di Giove [...] questa pietra è poi vomitata da Saturno, quando sbianca [...] la bianchezza è in realtà nascosta sotto il nero e la si estrae dal suo ventre cioè dallo stomaco di Saturno.»
Ma torniamo alla nostra maschera per un ulteriore osservazione... a nostro modo di vedere sia la vecchiaia che i sentimenti contrapposti espressi dal reperto in oggetto si accordano altrettanto sorprendentemente con una testimonianza tratta da uno scolio della «Repubblica» di Platone che riportiamo di seguito così come l'abbiamo trovata:
«Gli abitanti della Sardegna (ma presumibilmente anche quelli di Cartagine e Mozia) nel momento in cui i loro genitori hanno raggiunto la vecchiaia (e a quel punto i figli riconoscono che i loro padri hanno ormai vissuto un tempo abbastanza lungo) li conducono al luogo in cui hanno in animo di seppellirli; e una volta sul posto, durante l'escavazione delle fosse i vegliardi si pongono a sedere col sorriso a fior di labbra, pur consapevoli di trovarsi ad un istante dalla morte; allora ognuno di questi giovani brandendo un randello mena colpi al proprio padre e lo sospinge verso le fosse [...] i vegliardi, compiacendosi dell'operazione dei propri figli, giungevano alla morte con apparente manifestazione di gioia, ed emettevano l'ultimo sospiro col sorriso e nella letizia.» (SCHOL. ad Plat. Resp. I, 337 A - traduzione di Mario Perra)
In quest'ultimo estratto invece che un infanticidio abbiamo in tutta evidenza un parricidio.
Naturalmente (e ci teniamo a chiarirlo bene), siamo dell'avviso che questo episodio, così come la precedente strage di innocenti, non vada interpretato «alla lettera», ma in maniera assolutamente allegorica. Avremo modo di riparlare e di sviluppare questa nuova condizione nel prossimo paragrafo.
La Sfinge Alata
I reperti di cui intendiamo ora discutere non sono certamente meno curiosi e terribili dei precedenti.
Alcune arule con delle Sfingi alate, site anch'esse nel museo isolano, hanno calamitato il nostro interesse durante la nostra ultima visita risalente a quasi due anni fa.
Queste minacciose figure presentano la testa ed il volto di donna, il corpo (ossia il petto, le zampe e la coda) di leone, e le ali d'uccello.
Su ciò che può significare la presenza di queste Sfingi ci informa prontamente il nostro Plutarco. Attingiamo dunque, ancora una volta, dalla sua mirabile opera, ossia il «De Iside et Osiride»:
«Questa (loro Scienza) è quasi del tutto mascherata da miti e ragionamenti che lasciano intravedere soltanto un'oscura apparenza della realtà: ed è senz'altro per indicare questa caratteristica della loro Filosofia che davanti ai templi i sacerdoti collocavano le Sfingi, a significare cioè che la loro teologia è intessuta si Sapienza enigmatica.»
Ovviamente le considerazioni di Plutarco si riferiscono in particolare agli Egizi ma, a nostro avviso, sono tranquillamente estendibili al popolo dei Fenici.
Inoltre quella «Sapienza Enigmatica», di cui parla il nostro antico Autore, mascherata e dissimulata da miti e ragionamenti giustifica ampiamente (se mai c'é ne fosse bisogno) il metodo interpretativo sin qui adottato.
Cercheremo conferma di ciò nelle parole dell'alchimista Limojon De Sainct Disdier:
«(I Filosofi manifestano) sotto forma di immagini ed allegorie i più importanti segreti agli Studiosi che hanno il vantaggio di vedere chiaramente le verità Filosofiche, attraverso i veli enigmatici di cui sanno coprirle i Saggi.» («Il Trionfo Ermetico» - 1689)
Lo stesso Autore più avanti ribadisce:
«I Filosofi non hanno un sistema più sicuro, per celare la loro Scienza a quelli che ne sono indegni e per manifestarla ai Saggi, che quello di esporre mediante allegorie i punti essenziali della loro arte...»
La figura della Sfinge invece designa, di per se stessa, la così detta «Pietra dei Filosofi», ovvero quella sostanza che, come asserisce lo stesso Limojon, «è l'oggetto della Filosofia considerata allo stato della sua prima preparazione, in cui essa è vera e propria Pietra, giacché è solida, dura, pesante, fragile, friabile: essa è un corpo poiché fonde al fuoco, come un metallo, è tuttavia spirito in quanto è perfettamente volatile...».
Affidandoci alla testimonianza del nostro alchimista possiamo ben dire che la Pietra dei Filosofi (o Sfinge) é nello stesso tempo «corpo» ma anche «spirito volatile», é una materia fissa o solforosa e contemporaneamente una sostanza volatile o mercuriale.
In particolare la sua tenace stabilità viene evidenziata dalle porzioni leonine della figura, mentre la sua caratteristica aerea é invece simboleggiata dalle due ali. L'arcano frontespizio del «Mistero delle Cattedrali», opera dell'altrettanto misterioso Adepto Fulcanelli, reca la figura dell'essere mostruoso in oggetto e l'iscrizione:
«La Sfinge protegge e domina la Scienza».
In effetti la Sfinge protegge la Scienza da chi ne é indegno, in quanto la risoluzione degli enigmi ch'essa propone é riservata solamente ad un numero esiguo di «prescelti».
Inoltre la Sfinge domina l'Arte di Ermes poiché é lei a costituire l'unica vera preoccupazione dell'alchimista, l'unico soggetto verso cui il Saggio rivolge interamente le sue faticose attenzioni.
Per brevità di discorso non ci occuperemo dettagliatamente del mito greco riguardante l'essere mostruoso in argomento (Nota 3) se non per segnalare che Edipo, ossia colui che riesce a risolvere il celebre enigma della Sfinge, si rende protagonista dell'uccisione di suo padre, episodio che poi verrà ripreso dalla moderna psicanalisi.
Michele Maier (Atalanta fugiens - Emblema XXXIX) provvede a fornirci una spiegazione della vicenda:
«Edipo é accusato di parricidio e incesto... i due più raccapriccianti crimini che si possano immaginare... tuttavia ciò non fu scritto come una storia o un esempio edificante, ma inventato e presentato allegoricamente dai Filosofi per svelare i segreti della loro dottrina.
Entrambi i crimini riportati si incontrano nell'Opera; infatti il primo agente, o padre, è rovesciato e abbattuto dal suo effetto, o figlio; quest'effetto medesimo poi s'unisce alla causa seconda fino a divenir una cosa sola con essa...»
Come dunque abbiamo visto prima nell'estratto dalla «Repubblica» di Platone, il figlio uccide il padre o, per meglio dire, il mercurio filosofico, unico insostituibile Artigiano dell'Opera, uccide la materia antica e grezza affinché il vegliardo di ieri diventi il giovane uomo di domani, letteralmente una creatura rinnovata poiché, come è scritto: «Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.» (Corinzi 5,17)
Donna con maialino
Il nostro Plutarco tra le varie cose ci informa del fatto che i sacerdoti Egizi consideravano il maiale animale impuro, «questo soprattutto perché il maiale, così pare, si accoppia di preferenza quando la Luna é calante... si racconta anche una storia, che spiega perché essi sacrifichino il maiale una sola volta durante il plenilunio: Tifone, mentre inseguiva un maiale alla luce del plenilunio, trovò la bara di legno nella quale giaceva il corpo di Osiride, e la fece a pezzi.» (De Iside et Osiride)
Nella statuetta che ci accingiamo ad esaminare il perfido porcellino che, come abbiamo visto è connesso, per il suo determinante contributo, allo smembramento del dio del Sole, si trova rappresentato beatamente riposto tra le braccia di una giovane donna.
La figura è stata realizzata in terra cotta rossa... la fanciulla, dal volto apparentemente ricolmo di gioia fiduciosa, è riccamente vestita da un'ampia toga che le ricopre bene ogni parte del suo corpo. Presenta inoltre un copricapo tondeggiante simile ad un «turbante regale» con un pesante velo che le ricade sulle spalle.
L'immagine a nostro avviso ricorda molto da vicino le tante rappresentazioni della Vergine Maria da sempre così care ai fedeli della cristianità, tranne ovviamente per un particolare fondamentale; alludiamo cioè a quel porcellino che la nostra Dama tiene strettamente al petto.
Giacché Plutarco, nell'estratto visto poc'anzi, accenna al sacrificio del maiale durante il plenilunio a tal proposito possiamo riferire che tale usanza era comune ai misteri Eleusini.
Ad Eleusi, infatti, nel mese di bendromione si svolgevano i così detti Halade Mystai, espressione che significa letteralmente «andate al mare iniziati».
In questa cerimonia iniziatica, nelle prime ore del mattino, i candidati andavano verso il mare con dei porcellini che lavavano e poi sacrificavano, questo perché gli antichi ritenevano che il sangue di suino fosse molto apprezzato dagli dei degli inferi.
Dopo l'immolazione i corpi senza vita dei maiali venivano seppelliti in buche profonde. Codesto macabro atto di devozione si compiva nel terzo giorno dei misteri, indi per cui il verro sacrificato veniva appellato, non a caso, «maiale del terzo giorno», questo perché il numero Tre è un richiamo alle Tre reiterazioni occorrenti per la purificazione della materia impudica e ferina simboleggiata dalla bestiola.
Cercheremo ora di chiarire quale sia l'entità della materia di cui stiamo discorrendo.
A tal proposito segnaliamo che la statuetta richiama alla mente un'allegoria proposta dal Maier nella sua già citata opera dedicata ai «Nuovi Emblemi Chimici sui Segreti della Natura».
Si tratta, più precisamente, del quinto emblema il cui distico recita:
«Poni un rospo sul seno della donna perché lo allatti, e muoia la donna, e sia gonfio di latte il rospo» (Atalanta fugiens - Emblema V)
A questo punto dell'esposizione non sarà certamente troppo difficoltoso tracciare un parallelo tra le due allegorie a confronto; nei due casi delineati infatti abbiamo una vergine che tiene in grembo un animale tenebroso.
In particolare da una parte v'è il maiale e dall'altra il rospo... i due esseri bruti pur essendo animali diversi, hanno invero alcune caratteristiche affatto comuni.
Sono ambedue ripugnanti e sudici, particolarmente notturni, amanti dell'acqua morta e stagnante, della fanghiglia umida e melmosa.
Inoltre entrambi fuggono la luce del Sole verso quella profonda oscurità che gli alchimisti tradizionalmente accostano al metallo più greve esistente in Natura, ossia il volgare Piombo.
Nell'allegoria del Maier la donna allatta il rospo... il candido fluido è un chiaro riferimento al «latte della vergine» (lac virginis) dei Filosofi che altro non è che il «Mercurio dei Saggi», sostanza logicamente associata al latte per la sua bianchezza nivea.
Or dunque il velenoso rospo della metafora si nutre del latte sino a sazietà così come il «Solfo dei Filosofi» si nutre del liquido mercuriale.
Naturalmente l'Alchimista, unico vero demiurgo dell'Opera microcosmica, ha una visione che va oltre l'apparenza sgraziata e ripugnante del nostro rospo.
L'Artista sa infatti che codesto «soggetto» contiene in se qualcosa di estremamente buono e nutre la segreta speranza che la sua orrida creatura possa un giorno trasmutarsi in un giovane bellissimo e glorioso come accade alla belva protagonista della famosa favola di Charles Perrault de «La Bella e la Bestia».
In caso di riuscita il fortunato Operatore in caratteri rigorosamente d'Oro potrà a buon diritto scrivere sul suo personale libro di fiabe ermetiche il lieto finale tanto desiderato:
«E vissero tutti felici e contenti».
Chirone il centauro
Ci è parso quanto mai appropriato concludere il nostro lavoro sui Fenici con una rappresentazione assai degna di lode nonché meritevole di tutta la nostra meditata attenzione.
Trattasi di una splendida arula, ottimamente conservata, recante una figura antropomorfa dai tratti che stimiamo familiari.
Viene qui rappresentato un essere favoloso, invero assai importante nella mitologia greca, che fa bella mostra di una testa e busto d'uomo e di un corpo (dagli inguini in giù) di cavallo.
Questa creatura veniva appellata centauro.
Il torace del nostro personaggio sovrannaturale appare ben sviluppato a testimonianza della sua forza certamente non comune, le zampe sono pesantemente ed irrimediabilmente accasciate al terreno, il volto dalla folta barba senile (che evidenzia la sua grande esperienza ed immensa saggezza) offre allo spettatore un'espressione poco piacevole... contorta da un dolore lancinante.
Riconosciamo senza difficoltà alcuna il buon centauro Chirone. Secondo la mitologia Chirone era ritenuto l'uomo più Sapiente del suo tempo, versato grandemente a tutte le Arti più utili e nobili al Mondo, come la Medicina, l'Astronomia e la Musica, tanto che fu a giusto titolo maestro e precettore dei più grandi Eroi tramandatici dall'antichità favolistica.
Tra questi allevò Enea, Ercole, Castore, Polluce, Peleo, Esculapio, Cefalo, Ulisse, Teseo, Achille, Giasone e molti altri valorosi protagonisti delle allegorie ermetiche.
Il mito racconta che Ercole trafisse accidentalmente Chirone con una freccia bagnata dal sangue velenoso dell'Idra di Lerna. Il saggio Centauro venne condannato ad una perenne agonia, infatti, giacché immortale, non poteva perire e, nello stesso tempo, la grave ferita non si sarebbe mai più rimarginata.
E' per l'appunto questo patimento, questo immenso dolore che, secondo noi, viene rappresentato nell'arula in oggetto.
Zeus infine, ascoltando le suppliche dell'infermo, decise di porre termine alla sua esistenza... Chirone venne dunque ammesso in cielo a costituire la costellazione del Sagittario.
Or dunque questo centauro, sommo Sapiente sia qui in basso sulla terra che in alto nei cieli lattei dello zodiaco, con i suoi dardi d'acciaio magico, cos'altro può rappresentare se non la Sapienza stessa? Chi meglio di lui può personificare la divina Scienza di Ermes?
Di questa Arte Sacra, meglio conosciuta come Alchimia, abbiamo ritrovato sulla nostra isola molteplici e preziose tracce. Tuttavia, nonostante la sorpresa iniziale che ci si potrebbe figurare, a nostro parere era del tutto logico attendersi presso l'antico popolo dei Fenici testimonianze di questo genere.
Questo perché l'uomo dei tempi andati, oggi erroneamente considerato alla stregua di un barbaro, viveva a più stretto contatto con quelle forze che costituiscono la sua stessa origine, viveva cioè nel pieno e costante rapporto con la nostra unica e divina Madre, con quella Natura sola ed umile dispensatrice d'ogni bene.
Giammai nel passato la Nostra Dama è stata così ripudiata e misconosciuta come, ahimè, accade oggi. L'uomo moderno infatti, nell'epoca attuale, si è votato a quella forma di dissimulata idolatria che va sotto il nome «progresso».
Detto simulacro con i suoi falsi miraggi di salvezza attrae a se una gran quantità di ciechi proseliti ignari del destino che ci attende. Per la nostra specie non v'é alcuna possibilità di redenzione al di fuori delle anguste vie della Natura e dalle Sue leggi eterne.
I monumenti dei Fenici, dunque, costituiscono un invito alla riflessione affinché l'uomo si senta allettato ad un salutare ritorno alla semplicità del Creato. Questi reperti sono Opere realizzate con la nuda roccia, con quelle pietre adatte ad essere usate quali «Testa d'Angolo» e che il buon costruttore non potrà scartare, poiché...
Le sempiterne Pietre;
Come stabile Fondamento;
Attraversano l'apparenti muri del Tempo;
Incuranti dell'urla mortali;
Figliole e diletto della Natura;
Arridon all'Oblio senza paura;
Dimore inestimabili di Luce dormiente;
Rinserrata tra le fauci dun astuto Serpente;
Ma li messaggeri Astri spadroneggian possesso;
L'Universo é dell'Uomo puro riflesso.
Michele Trapani
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